Джек Марс Il Giuramento
Il Giuramento
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Джек Марс Il Giuramento

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“Davvero? A me lei piace moltissimo. Penso che sia una grande donna. Al mio Paese…”

Nel laboratorio si spensero le luci. Accadde senza alcun preavviso – nessuno sfarfallio, nessun bip, niente di niente. Per parecchi secondi Aabha rimase in piedi nel buio assoluto. Il rumore dei forni a convenzione e delle apparecchiature elettriche, che era un costante ronzio di sottofondo nel laboratorio, rallentò fino a spegnersi. Poi ci fu il silenzio totale.

Aabha mise nella voce quella che sperava essere una giusta nota di allarme.

“Tom? Tom!”

“Va bene, Aabha, va tutto bene. Sto cercando di prendere… Che succede qui? Le telecamere sono spente.”

“Non lo so. Sto…”

Si accese una serie di luci gialle d’emergenza, e le ventole dei forni ripresero a girare. La luce bassa trasformò il laboratorio in un mondo inquietante e ombroso. Era tutto offuscato, eccetto che per le luci rosso brillante che dicevano USCITA luccicando nella semioscurità.

“Wow,” disse lei. “È stato spaventoso. Per un minuto il tubo dell’aria ha smesso di funzionare. Ma adesso si è riacceso.”

“Non so cosa sia successo,” disse Tom. “Stiamo usando l’energia di riserva su tutto l’edificio. Abbiamo dei generatori di scorta pieni che sarebbero dovuti entrare in funzione, ma non l’hanno fatto. Penso che una cosa del genere non sia mai accaduta prima. E sono ancora senza telecamere. Tu stai bene? Riesci a uscire?”

“Io sto bene,” disse. “Un po’ spaventata, ma bene. Le luci dell’uscita sono accese. Posso seguire quelle?”

“Sì. Ma devi seguire tutti i protocolli di sicurezza, anche al buio. La doccia chimica per la tuta, la doccia normale per te – tutto quanto. Oppure, se senti di non riuscire a seguire il protocollo, dobbiamo aspettare finché non riesco a mandarti giù qualcuno, o finché non torna la corrente.”

La voce di lei tremò appena appena. “Tom, mi si è spenta l’aria. Se si spegne ancora… Diciamo solo che non voglio trovarmi qui senza il tubo dell’aria. Potrei seguire il protocollo a occhi chiusi. Ma devo proprio uscire.”

“Okay. Tutte le procedure alla lettera, però. Mi fido di te. Ma non ho luce. Sembra che sia tutto al buio, fino all’uscita. La camera di equilibrio è rimasta fuori uso per un minuto, ma si è appena riattivata. Probabilmente la cosa migliore è che ti facciamo uscire per di là. Una volta attraversata la camera non dovresti avere problemi. Fammi sapere quando l’hai superata, okay? Voglio richiuderla per risparmiare energia.”

“Okay,” disse lei.

Si spostò lentamente nell’oscurità verso la porta d’uscita che portava alla camera di equilibrio, con la fiala del virus ancora nel palmo della mano destra guantata. Ci sarebbero voluti venti o trenta minuti per seguire tutte le procedure per l’uscita. Non sarebbe andata così. Aveva pianificato di fare il minimo indispensabile da lì in avanti. Sarebbe stata l’uscita dal laboratorio più veloce che avessero mai visto.

Tom le stava ancora parlando. “Per favore, assicurati anche di mettere in sicurezza tutti i materiali e tutta l’attrezzatura prima di uscire. Non vogliamo che qualcosa di pericoloso se ne vada a spasso.”

Aprì la prima porta e ci passò attraverso. Appena prima che si chiudesse, udì la sua voce per l’ultima volta.

“Aabha?” le disse.

*

Aabha guidava la BMW Z4 convertibile con il tettuccio tirato giù.

Era una serata calda, e voleva sentire il vento tra i capelli. Era la sua ultima notte a Galveston. Era la sua ultima notte come Aabha. Aveva portato a termine la missione affidatale, e dopo cinque lunghi anni di lavoro sotto copertura, quella parte della sua vita era finita.

Era una sensazione fantastica – levarsi di dosso un’identità come fosse stata un vestito. Era libertà, era euforia. Sentiva di poter essere la protagonista di una pubblicità televisiva.

Si era stancata della seria e studiosa Aabha molto tempo fa. Chi sarebbe diventata adesso? Era una domanda deliziosa.

Il viaggio fino al porto fu breve – erano poche miglia appena. Uscì dalla strada principale per scendere lungo la rampa di un parcheggio. Prese lo zaino per la notte e la borsa dal bagagliaio e lasciò le chiavi nel vano portaoggetti. Tra un’ora una donna che non aveva mai visto, ma che aveva lineamenti simili ad Aabha, sarebbe salita in macchina e se ne sarebbe andata. La macchina si sarebbe trovata a duecento miglia di distanza entro la mattina dopo.

La cosa la rendeva un pochino triste, perché quella macchina l’adorava.

Ma che cos’era una macchina? Niente di più di molte parti individuali, saldate e avvitate e assicurate insieme. Un’astrazione, in realtà.

Camminò sui tacchi alti per il porto. Le scarpe risuonavano sul terreno piastrellato. Superò la piscina, chiusa a quell’ora della sera, ma illuminata dall’alto da una spettrale luce azzurra. I tetti di paglia dei ripari dal sole per picnic frusciavano nella brezza. Scese la rampa fino al primo molo.

Da lì riusciva a vedere la grande barca brillare nella sera sull’acqua, ben al di là del più lontano raggio del dedalo di moli interconnessi. La barca, uno yacht transatlantico di settantasei metri, era decisamente troppo grande per avvicinarsi la porto. Era un hotel galleggiante, completo di discoteca, piscina con idromassaggio, palestra e del suo elicottero da quattro persone con pista d’atterraggio. Era un castello mobile, perfetto per un re moderno.

Lì al molo l’aspettava un piccolo motoscafo. Un uomo le offrì la mano per aiutarla a salire sulla murata e poi per farla scendere nella cabina di pilotaggio. Si sedette sul retro mentre l’uomo scioglieva la barca e poi la spingeva, e il conducente ingranava la marcia.

Avvicinarsi allo yacht sul motoscafo era come pilotare una capsula minuscola verso il molo della più gigantesca nave star destroyer dell’universo. Non attraccarono neanche. Il motoscafo si avvicinò alla parte posteriore dello yacht, e un altro uomo la aiutò a salire la scala a cinque pioli fin sulla porta. Quell’uomo era Ismail, il famoso assistente.

“Hai l’agente?” le chiese quando fu salita a bordo.

Lei fece un sorrisetto. “Ciao, Aabha, come stai?” disse. “È un piacere vederti. Sono contento che tu ne sia uscita indenne.”

Lui mosse la mano come per mimare una ruota che gira. Dai, dai. “Ciao, Aabha. Etc. etc. Hai l’agente?”

Lei prese dalla borsa la fiala piena del virus Ebola. Per un secondo ebbe una voglia improvvisa di gettarla nell’oceano. La esibì invece perché lui la ispezionasse. Lui la fissò.

“In quel piccolissimo contenitore,” disse. “Incredibile.”

“Ho dato cinque anni della mia vita per questo contenitore,” disse Aabha.

Ismail sorrise. “Sì, ma tra cent’anni la gente canterà canzoni sull’eroica ragazza di nome Aabha.”

Allungò una mano come se Aabha fosse sul punto di mettergli nel palmo la fiala.

“La do a lui,” disse.

Ismail si strinse nelle spalle. “Come desideri.”

Salì una rampa di scale illuminate di verde ed entrò nella cabina principale attraverso una porta in vetro. Nella gigantesca cabina contro una parete c’era un lungo bar, molti tavoli lungo i muri e una pista da ballo nel centro. Il suo capo usava la stanza per il divertimento. Aabha c’era stata quando era come un club di Berlino – solo posti in piedi, musica a volume così alto che i muri sembravano pulsare a ritmo, luci stroboscopiche, corpi schiacciati uno contro l’altro sulla pista. Adesso la stanza era silenziosa e vuota.

Si spostò su un corridoio con un tappeto rosso con mezza dozzina di scompartimenti privati su ogni lato, e poi percorse un’altra rampa di scale. Sulla cima c’era un altro corridoio. Si trovava nelle profondità della barca adesso, e stava andando ancor più in profondità. La maggior parte degli ospiti non era mai arrivata fin lì. Raggiunse la fine del corridoio e bussò alla grande porta doppia che vi trovò.

“Avanti,” disse una voce maschile.

Aprì la porta sinistra ed entrò. La stanza non aveva mai smesso di meravigliarla. Era la camera padronale, ubicata direttamente al di sotto della casa pilota. Dall’altra parte della stanza rispetto a dove si trovava lei c’era una finestra curva che andava dal pavimento al soffitto a 180 gradi, e che dava sul punto a cui si stava avvicinando la barca, così come su ciò che si trovava alla sua destra e alla sua sinistra. Spesso erano panorami del mare aperto.

Sul lato sinistro della stanza c’era un salottino con un grande sofà a sezioni a formare una zona festa. C’erano anche due poltrone, una tavola da pranzo per quattro e un enorme pannello televisivo piatto appeso al muro, con una lunga soundbar montata appena sotto. Un alto mobiletto in vetro pieno di liquori era vicino al muro, nell’angolo.

Alla sua destra c’era il letto enorme personalizzato, completo di specchio montato sul soffitto che lo sovrastava. Al proprietario della barca piaceva divertirsi, e il letto poteva contenere facilmente quattro persone, a volte cinque.

In piedi davanti al letto c’era il proprietario stesso. Indossava un paio di pantaloni bianchi in seta chiusi da un cordoncino, un paio di sandali ai piedi, e nient’altro. Era alto e moro. Forse aveva quarant’anni, con capelli sale e pepe e una barba corta che stava appena cominciando a farsi bianca. Era molto bello, con occhi marrone scuro.

Il suo corpo era slanciato, muscoloso, e perfettamente proporzionato in un triangolo capovolto – ampie spalle e un torace affusolato con gli addominali a tartaruga e la vita sottile, con gambe muscolose al di sotto. Sul pettorale sinistro c’era il tatuaggio di un cavallo nero gigante, un destriero arabo. L’uomo aveva una serie di destrieri, e li prendeva come suo simbolo personale. Erano forti, virili, regali – come lui.

Appariva in forma, in salute e ristorato, proprio come gli uomini ampliamente benestanti con facile accesso a personal trainer competenti, ai cibi migliori e a medici pronti a somministrare i precisi trattamenti ormonali per combattere il processo di invecchiamento. In una parola, era bellissimo.

“Aabha, mia adorabile, adorabile ragazza. Chi sarai dopo stasera?”

“Omar,” disse. “Ti ho preso un regalo.”

Sorrise. “Non ho mai dubitato di te. Nemmeno per un momento.”

Le fece cenno di avvicinarsi, e lei andò da lui. Gli porse la fiala, ma lui la mise sul tavolino accanto al letto quasi senza neanche guardarla.

“Dopo,” disse. “Possiamo pensarci dopo.”

La tirò a sé. Lei entrò nel suo forte abbraccio. Gli schiacciò il viso sul collo e sentì il suo profumo, il discreto odore della sua colonia sopra e il più profondo e più semplice odore di lui. Non era un patito della pulizia, quell’uomo. Voleva che sentissi il suo odore. Lei lo trovava eccitante, il suo odore. Di lui trovava tutto eccitante.

Lui la girò e la spinse a faccia in giù sul letto. Lei obbedì volontariamente, con impazienza. Un attimo dopo si contorceva mentre le mani di lui le toglievano i vestiti e vagavano per il suo corpo. La sua voce profonda le mormorava delle cose, parole che normalmente avrebbero potuto scioccarla, ma lì, in quella stanza, la fecero gemere di piacere animale.

*

Quando Omar si svegliò, era solo.

Era un bene. La ragazza conosceva le sue preferenze. Mentre dormiva non gli piaceva essere disturbato dai movimenti e dagli irritanti rumori altrui. Il sonno era riposo. Non un incontro di wrestling.

La barca si muoveva. Avevano lasciato Galveston, proprio come da programma, ed erano diretti verso la Florida passando per il golfo del Messico. A un certo punto, l’indomani, avrebbero attraccato vicino a Tampa, e la fialetta che gli aveva portato Aabha sarebbe sbarcata a terra.

Andò al tavolino e sollevò la fiala. Era solo una fialetta, fatta di spessa plastica indurita e bloccata in cima da un tappo rosso brillante. Il contenuto era anonimo. Sembrava poco più di una pila di polvere.

Eppure…

Toglieva il fiato! Possedere quel potere, il potere di vita e di morte. E non semplicemente il potere di vita e di morte su un’unica persona – il potere di uccidere molte, molte persone. Il potere di distruggere un intero popolo. Il potere di tenere nazioni in ostaggio. Il potere di guerra totale. Il potere della vendetta.

Chiuse gli occhi e respirò profondamente col diaframma, cercando la calma. Per lui era stato un rischio venire a Galveston di persona, nonché un atto non necessario. Ma aveva voluto esserci nel momento in cui un’arma del genere fosse passata nel novero dei suoi averi. Voleva toccare l’arma, e sentirne il potere nella mano.

Posò di nuovo la fiala sul tavolino, si mise i pantaloni e rotolò fuori dal letto. Indossò una maglietta del Manchester United e uscì sul ponte. La trovò lì, seduta comoda su una sedia a sdraio a fissare la notte, le stelle e la vasta acqua scura che li circondava.

Una guardia del corpo se ne stava zitta e tranquilla vicino alla porta.

Omar fece un cenno all’uomo, e questi si avvicinò alla ringhiera.

“Aabha,” disse Omar. Lei si voltò, e lui si accorse di quanto fosse assonnata.

Sorrise, e lui le sorrise a sua volta. “Hai fatto una cosa meravigliosa,” le disse. “Sono molto orgoglioso di te. Forse è ora che tu dorma.”

Annuì. “Sono stanchissima.”

Omar si curvò e le loro labbra si incontrarono. La baciò profondamente, assaporando il suo sapore e il ricordo delle curve del suo corpo, dei suoi movimenti, e dei suoi gemiti.

“Per te, tesoro mio, il riposo è decisamente meritato.”

Omar lanciò un’occhiata alla guardia. Era un uomo alto e forte. Lui prese una borsa di plastica dalla tasca della giacca, avvicinò la ragazza da dietro, e con un unico abile movimento le fece scivolare la borsa sulla testa e la strinse forte.

Istantaneamente il corpo di lei si fece elettrico. Si allungò all’indietro nel tentativo di graffiarlo e colpirlo. I piedi le saltarono in aria. Combatté, ma era impossibile. L’uomo era decisamente troppo forte. Aveva i polsi e gli avambracci tesi, con le vene che si increspavano e i muscoli che facevano il loro dovere.

Attraverso la borsa traslucida, il viso di lei divenne una maschera di terrore e disperazione, gli occhi spalancati. La bocca era una grossa O, una luna piena, che rantolava in cerca di aria senza trovarne. Risucchiava sottile plastica invece di ossigeno.

Il corpo le si tese, e divenne rigido. Era come un intaglio nel legno di donna, il corpo in pendenza, leggermente curvato all’indietro nel mezzo. Gradualmente cominciò a scendere. Si indebolì, calò, e poi si fermò del tutto. La guardia allora le permise di affondare lentamente di nuovo sulla sedia. Lui affondò con lei, guidandola. Adesso che era morta, la trattava con dolcezza.

L’uomo fece un respiro profondo e alzò lo sguardo su Omar.

“Cosa devo farne?”

Omar fissò la notte buia.

Era un peccato uccidere una ragazza tanto brava come Aabha, ma era macchiata. A un certo punto, presto, forse addirittura l’indomani mattina, gli americani avrebbero scoperto che il virus era sparito. Subito dopo avrebbero scoperto che Aabha era stata l’ultima persona a mettere piede nel laboratorio, e che si trovava lì quando era mancata la luce.

Sarebbero giunti alla conclusione che la mancanza di elettricità era dovuta a un cavo sotterraneo tagliato deliberatamente, e che il mancato funzionamento dei generatori di scorta era il risultato di un attento sabotaggio condotto molte settimane prima. Avrebbero cercato disperatamente Aabha, avrebbero fatto una ricerca senza regole, e non avrebbero mai dovuto trovarla.

“Fatti aiutare da Abdul. Ha dei secchi vuoti e del cemento a presa rapida nell’armadietto dell’attrezzatura, nella stanza dei motori. Portala lì. Appesantiscila con un secchio di cemento attorno ai piedi e ai polpacci, e gettala nel punto più profondo del mare. Un migliaio di piedi di profondità o più, per cortesia. I dati sono subito disponibili, vero?”

L’uomo annuì. “Sì, signore.”

“Perfetto. In seguito fa’ lavare tutte le mie lenzuola, i cuscini e le coperte. Dobbiamo stare attenti a distruggere tutte le prove. Nell’ipotesi molto improbabile che gli americani assaltino la barca, non voglio avere nei miei paraggi il DNA della ragazza.”

L’uomo annuì. “Certamente.”

“Benissimo,” disse Omar.

Lasciò la sua guardia del corpo con il cadavere e tornò nella camera padronale. Era ora di fare un bagno caldo.

CAPITOLO CINQUE

10 giugno

11:15

Contea di Queen Anne, Maryland – Spiaggia orientale della baia di Chesapeake

“Be’, magari dovremmo solo vendere la casa,” disse Luke.

Stava parlando della loro vecchia casa di campagna sul litorale, a venti minuti di strada da dove si trovavano in quel momento. Luke e Becca avevano preso in affitto un’altra casa, molto più spaziosa e moderna, per le due settimane seguenti. A Luke la nuova casa piaceva di più, ma erano lì solo perché Becca non sarebbe mai tornata a casa loro.

Capiva la sua riluttanza. Ovvio che la capiva. Quattro notti prima sia Becca che Gunner erano stati rapiti, in quella casa. Luke non era lì a proteggerli. Avrebbero potuto essere uccisi. Sarebbe potuto succedere di tutto.

Diede un’occhiata alla grande e luminosa finestra della cucina. Gunner era fuori in jeans e t-shirt a fare un gioco immaginario, come ogni tanto fanno i bambini di nove anni. Tra pochi minuti Gunner e Luke avrebbero tirato fuori la barca a vela per andare a pesca.

Vedere suo figlio gli diede una stilettata di terrore.

E se Gunner fosse rimasto ucciso? E se entrambi fossero semplicemente scomparsi, per sempre? E se tra due anni Gunner non avesse più fatto giochi immaginari? Luke aveva una baraonda in testa.

Sì, era stato orribile. Sì, non sarebbe mai dovuto accadere. Ma c’erano problemi più importanti. Luke e Ed Newsam e una manciata di persone avevano bloccato un violento tentativo di colpo di Stato, e avevano reinstallato ciò che era rimasto del governo degli Stati Uniti eletto democraticamente. Era possibile che avessero salvato la democrazia americana stessa.

Era stata una bella cosa, ma Becca non sembrava interessata ai problemi più importanti in quel momento.

Sedeva al tavolo della cucina in un abito celeste, a bere la sua seconda tazza di caffè. “È facile dirlo per te. Quella casa appartiene alla mia famiglia da cent’anni.”

Rebecca aveva i capelli lunghi che le ricadevano sulle spalle. Aveva gli occhi azzurri, incorniciati da folte ciglia. Per Luke il suo bel viso era magro e tirato. Gli dispiaceva. Gli dispiaceva per tutto, ma non riusciva a pensare a qualcosa da dire che potesse migliorare le cose.

Una lacrima le rotolò giù per la guancia. “Lì c’è il mio giardino, Luke.”

“Lo so.”

“Non posso lavorare nel mio giardino perché ho paura. Ho paura di casa mia, la casa alla quale torno da quando sono nata.”

Luke non disse nulla.

“E il signore e la signora Thompson… sono morti. Lo sai, no? Quegli uomini li hanno uccisi.” Guardò tagliente Luke. Aveva gli occhi cattivi. Becca aveva la tendenza ad arrabbiarsi con lui, a volte per questioni davvero minori. Si dimenticava di fare i piatti, o di portar fuori la spazzatura. Quando lei si arrabbiava, aveva negli occhi sempre uno sguardo simile a quello di adesso. Luke tra sé e sé lo chiamava lo Sguardo che incolpa. E per Luke, in quel momento, lo Sguardo che incolpa era troppo.

Riportò alla mente una breve immagine dei suoi vicini, il signore e la signora Thompson. Se a Hollywood avessero dovuto ingaggiare una gentile e anziana coppietta della porta accanto, i Thompson sarebbero stati perfetti per il ruolo. A lui piacevano i Thompson, e non avrebbe mai voluto che le loro vite finissero così. Ma quel giorno erano morte molte persone.

“Becca, non li ho uccisi io i Thompson. Okay? Mi dispiace che siano morti, e mi dispiace che tu e Gunner siate stati rapiti – me ne dispiacerò per il resto della vita e farò tutto ciò che posso per sistemare le cose con voi due. Ma non sono stato io. Non ho ucciso i Thompson. Non ho mandato delle persone a rapirvi. Sembri aver confuso le cose, e questo proprio non mi va.”

Fece una pausa. Era un buon momento per smettere di parlare, ma non smise. Le parole gli uscirono in torrenti.

“Tutto quello che ho fatto è stato farmi strada in una tormenta di proiettili e bombe. Hanno cercato di uccidermi per tutto il giorno e per tutta la notte. Mi hanno sparato, sono saltato per aria, sono stato mandato fuori strada. E ho salvato la presidente degli Stati Uniti, la tua presidente, da morte praticamente certa. Questo ho fatto.”

Respirò pesantemente, come se avesse appena fatto una corsa.

Si pentì di tutto. Che fosse la verità. Lo feriva pensare che il lavoro che faceva le avesse causato del dolore, lo feriva più di quanto lei avrebbe mai saputo. Aveva lasciato il suo lavoro l’anno precedente proprio per quella ragione, ma era stato richiamato per una sola notte – una notte che si era trasformata in una notte, un giorno, un’altra notte incredibilmente lunga. Una notte durante la quale aveva pensato di aver perso per sempre la sua famiglia.

Becca non si fidava più di lui. Lui lo vedeva bene. La sua sola presenza la spaventava. Lui era la ragione di quello che era accaduto. Era spericolato, fanatico, e avrebbe fatto ammazzare lei e suo figlio.

Le lacrime le scendevano silenziose lungo il viso. Passò un lungo minuto.

“Ha poi importanza?” gli disse.

“Che cosa?”

“Ha importanza chi è presidente? Se io e Gunner fossimo morti, ti importerebbe davvero di chi è presidente?”

“Ma siete vivi,” disse. “Non siete morti. Siete vivi e vegeti. C’è una bella differenza.”

“Okay,” disse lei. “Siamo vivi.” Era un’intesa che non era un’intesa.

“Voglio dirti una cosa,” disse Luke. “Lascio. Non ho intenzione di farlo più. Nei prossimi giorni magari avrò qualche riunione a cui partecipare, ma non prenderò più nessun incarico. Ho fatto la mia parte. Adesso ho finito.”

Lei scosse la testa, ma appena appena. Era come se non avesse neanche l’energia di muoversi. “Me l’hai già detto in passato.”

“Sì. Ma questa volta dico sul serio.”

*

“Tieni sempre la barca in equilibrio.”

“Okay,” disse Gunner.

Lui e il padre caricavano l’attrezzatura. Gunner indossava i jeans, una t-shirt e un grande e floscio cappello da pescatore per ripararsi il viso dal sole. Aveva anche un paio di occhiali da sole Oakley che gli aveva dato il padre perché erano fighi. Suo padre ne indossava un paio identico.

La t-shirt andava bene – era di 28 giorni dopo, un filmetto carino di zombie con gli inglesi. Il problema della maglietta era che non aveva veri e propri zombie disegnati sopra. C’era solo il simbolo rosso del rischio biologico su sfondo nero. Immaginò che avesse senso. Gli zombie del film non erano davvero dei non-morti. Erano persone infettate da un virus.

“Metti di traverso il frigo portatile,” gli disse il padre.

Suo padre conosceva tutte queste parole strane che usava ogni volta che andavano a pescare. A volte facevano ridere Gunner. “Di traverso!” urlò. “Signorsì, capitano.”

Suo padre spostò la mano per mostrargli dove voleva che lo mettesse; nel mezzo, di lato, non vicino al parapetto posteriore dove Gunner l’aveva invece messo. Gunner fece scivolare il grosso frigo azzurro al suo posto.

Rimasero lì, a fissarsi l’uno con l’altro. Suo padre gli rivolse un’occhiata buffa da dietro gli occhiali. “Come stai, figliolo?”

Gunner esitò. Sapeva che era preoccupato per lui. L’aveva sentito sussurrare il suo nome, la notte precedente. Ma stava bene. Davvero. Era stato spaventato, ed era ancora un po’ spaventato. Aveva anche pianto molto, il che andava bene. Si doveva piangere, ogni tanto. Non si doveva tenere tutto dentro.

“Gunner?”

Be’, poteva anche parlarne.

“Papà, a volte tu uccidi persone, vero?”

Suo padre annuì. “A volte lo faccio, sì. Fa parte del mio lavoro. Ma uccido solo i cattivi.”

“Come fai a sapere che sono cattivi?”

“A volte è difficile capirlo. E a volte è facile. I cattivi fanno male alle persone che sono più deboli, oppure a persone innocenti che pensano solo ai fatti loro. Il mio lavoro consiste nell’impedir loro di farlo.”

“Come gli uomini che hanno ucciso il presidente?”

Il padre annuì.

“Li hai uccisi?”

“Ne ho uccisi alcuni, sì.”

“E quelli che hanno rapito me e la mamma? Hai ucciso anche loro, vero?”

“Sì, li ho uccisi.”

“Sono contento che tu l’abbia fatto, papà.”

“Anch’io, mostriciattolo. Erano proprio il tipo di uomini che è giusto uccidere.”

“Sei tu il miglior killer del mondo?”

Suo padre scosse la testa e sorrise. “Non lo so, campione. Non credo che ci diano punti. Non è uno sport. Non c’è un campione mondiale dell’omicidio. In ogni caso, non lo farò più. Voglio trascorrere più tempo con te e con la mamma.”

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